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Attenda alle sue rime, il cantor della bionda Avignonese!


Arrigo Boito, librettista del secondo rimaneggiamento del "Simon Boccanegra" verdiano, mette questa elegante quanto involuta metafora in bocca a Paolo Albiani quando intende soffocare la voce di Francesco Petrarca, il quale aveva inviato una lettera al Consiglio di Genova supplicando pace tra Genova e Venezia.

Simon Boccanegra è un'opera meravigliosa ma poco rappresentata; narra le vicende di Boccanegra, corsaro genovese, assurto al ruolo di Doge per volere del popolo. Boccanegra morrà avvelenato per mano di Paolo, il più accanito sostenitore dell'elezione di Simone, diventato il suo più acerrimo nemico quando il suo sogno di arricchirsi malversando si infrange contro il rigore morale dell'ex corsaro.

A Boccanegra dobbiamo una delle più accorate invocazioni alla pace esistenti nella letteratura operistica: "Plebe! Patrizi! Popolo! Dalla feroce storia! Erede sol dell'odio dei Spinola e dei Doria, Mentre v'invita estatico Il regno ampio dei mari, Voi nei fraterni lari vi lacerate il cor. Piango su voi, sul placido raggio del vostro clivo, là dove invan germoglia Il ramo dell'ulivo. Piango sulla mendace festa dei vostri fior. E vo gridando: pace! E vo gridando: amor! ".

Verdi era un grande musicista ma anche un grande uomo di teatro, e conosceva come pochi altri l'anima (ossia i pregi e i difetti) del popolo italiano. Dopo un primo matrimonio finito tragicamente, morti in soli tre anni i due figli e la moglie, si innamorò di Giuseppina Strepponi con la quale convisse per undici anni prima di sposarla nel 1859, per dire la modernità dell' individuo in questione.

Voce del Risorgimento Italiano, Giuseppe Verdi si battè strenuamente contro ogni tipo di censura alle sue opere, e con rara caparbietà musicò temi certo non cari alla letteratura operistica di allora, tutta dedita a dei, eroi, re e regine. Nella trilogia romantica fa cantare un gobbo, una zingara pazza e infanticida e, sommo scandalo, mette in scena "La Dame aux Camelias" di Dumas, la storia di una prostituta parigina malata terminale di tisi, che rappresentata a Venezia crollò sotto i fischi dei soliti benpensanti che non gradirono veder raffigurata la loro ipocrisia sul palcoscenico. L'opera, come tutti i capolavori, resse la prova del tempo ed è una delle più allestite del repertorio: si chiama "La Traviata".

"Attenda alle sue rime il cantor della bionda Avignonese" devono aver pensato i fischiatori veneziani che affondarono la Traviata, ossia pensi a far musica, il Verdi, e non ci venga a dar lezioni di morale. Da sempre, infatti, l'argomento più caro a chi non ha argomenti è proprio quello di invitare l'interlocutore a fare il mestiere suo e di occuparsi di cose che lo riguardino direttamente.

Capita anche a me, che per diletto mio e di pochi altri scrivo da qualche anno queste righe, di sentirmi talvolta dire che farei meglio ad occuparmi preferibilmente di lirica e di pensare al mio mestiere.

Ma, vedete, come penso di aver raccontato tracciando questo breve e necessariamente incompleto ritrattino verdiano, è praticamente impossibile per l'artista occuparsi solo del suo mestiere, perché il suo mestiere è la vita intera e tutto lo riguarda direttamente. L'artista, per sua fortuna e per sua disgrazia, non lo è dalle nove alle diciassette, orario in cui chiude bottega e ci vediamo domani: lo è ventiquattro ore al giorno. Anzi, più si affina l'arte, più scorrono gli anni, più l'interesse per il mondo che ci circonda diventa capillare, e risulta difficile se non impossibile vivere soltanto in ragione di quello che si fa per sbarcare il lunario, e diventa una sorta di imperativo categorico il desiderio di collaborare, nei limiti delle proprie possibilità, a lasciare un mondo migliore di quello in cui ci si è trovati a vivere.

Certo, il rischio di diventare Cincinnato e ritirarsi in campagna come fece Verdi, che dopo l'Aida scomparve dal panorama musicale, è sempre dietro l'angolo, ma è difficile che un artista vero ci resti a lungo, nel suo deserto.

Indovinate chi fu a fare uscire Verdi dall'eremo? Arrigo Boito, il poeta di cui ho parlato all'inizio di questo articolo e di cui Verdi non voleva sentir parlare perché in una poesia l'aveva pubblicamente offeso dicendo : "Forse già nacque chi sovra l'altare / Rizzerà l'arte, verecondo e puro, / Su quel'altar bruttato come un muro / Di lupanare". Erano due teste pensanti, due liberi pensatori (basterebbe dire "pensatori", chi pensa davvero è sempre libero!), misero da parte le antiche ruggini, diventarono amici e alla loro collaborazione dobbiamo l'uscita di Verdi dall'esilio e la scrittura di Otello e di Falstaff, nonché il rimaneggiamento di Simone Boccanegra.

Vedete, in questo alambicco mi sono occupato di lirica. Ma, a differenza di quanto si creda, la lirica non è solo acuti e bella musica. Nel caso di Verdi (ma anche in quello di molti altri compositori) è anche vita, battaglia, rigore morale, amore, poesia, pace, attenzione per l'umanità, testimonianza del proprio tempo, politica, sogno di un avvenire migliore, e certezza che questo avvenire migliore può anche non essere dietro l'angolo, e magari potremo anche non essere noi ad avere la grazia di poterlo vedere, ma è inevitabile.

Non a caso, gli ultimi versi teatrali musicati da Verdi recitano: "Irride l'un l'altro ogni mortal. Ma ride ben chi ride la risata final". Seguiti dalla definitiva indicazione scenica di Boito: "qui cala la tela."

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