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  • misteralfi

Un racconto di Natale


Faceva freddo quella sera, e Carlo era rientrato a casa appena in tempo per sottrarsi ai primi fiocchi di neve che cominciavano a cadere silenziosi sulla città vestita a festa; il forte vento di tramontana che aveva soffiato fino al giorno prima si era lasciato dietro, nell’aria, quell’odore asciutto e pungente che Carlo chiamava “profumo di Natale”, un profumo impossibile a raccontarsi e che tanti adulti, crescendo, dimenticano. Carlo aprì la porta bestemmiando silenziosamente contro la serratura che, come al solito, ti costringeva a fare complicate manovre con la chiave per farla scattare e che, come al solito, non era riuscito a far riparare come si deve perché gli sembrava l'ultimo dei suoi problemi ma che tutte le sere, al rientro, diventava una seccatura quasi insormontabile. Tolse le scarpe infilandole meticolosamente nella scarpiera (un mobile di Ikea che gli era costato tre ore di montaggio per via del fatto che le istruzioni, benché fatte di sole figure, erano state concepite per un ingegnere nucleare), appoggiò il soprabito sulla spalliera della sedia, si sfilò la sciarpa e si sedette a pensare, o meglio furono i pensieri di Carlo che lo costrinsero a sedersi.

Pensava, Carlo, ai Natali passati, alle cene in famiglia quand’era bambino e che, forse per il potere che hanno solo i ricordi, gli sembravano infinite, pantagrueliche ... pensava alle notti passate in attesa di Babbo Natale e all’anno in cui era rimasto tutta la vigilia nel letto con gli occhi sbarrati perché, anche se una parte di sé capiva che i suoi compagni di scuola avevano ragione a giurare e spergiurare che Babbo Natale non esisteva, dentro di lui qualcosa lo spingeva a crederci ancora, e ancora, e ancora. Voleva una biglia blu cobalto che aveva visto dal cartolaio e che la mamma non gli avrebbe mai comperato perché, diceva, era ormai troppo grande per giocare con le biglie. Aspettò tutta la notte finché il sonno non lo vinse e il giorno dopo, quando si precipitò a guardare sotto l’albero, c’erano un mucchio di regali che lo aspettavano ma non quello che desiderava più di tutto: della biglia blu cobalto neanche l’ombra. Fu così che Carlo imparò a sue spese che Babbo Natale non esiste.

Sembra una metafora della mia vita, si disse Carlo nel silenzio della cucina buia, quando d’improvviso si udì il quasi impercettibile clic del timer che spegneva il riscaldamento. Mezzanotte, pensò Carlo, e a voce alta si disse “Buon Natale”: come d’impulso spalancò la finestra lasciando che l’aria pungente della notte gli riempisse le narici. Qualche metro sotto di lui, nel vicolo, gli parve di vedere come una grossa macchia rossa che sporcava il bianco immacolato della neve fresca: si ravvolse nel soprabito, fece di corsa i piani di scale che lo separavano dal portone ed uscì in strada con il cellulare in mano. Aprì il portone e si avvicinò circospetto alla grossa macchia rossa per scoprire, con grande sorpresa, che si trattava di un vecchio che puzzava di alcool lontano un miglio che teneva in mano un sacco vuoto di iuta, vestito con un costumaccio da Babbo Natale di quelli che si comprano al supermercato per dieci euro e che non ingannerebbero nemmeno un bambino di due anni, e con addosso una barba bianca incollata a metà.

Era scivolato, il vecchio, o forse si era addormentato sulla neve perché era troppo sbronzo per tornare a casa. Carlo lo guardò per un attimo e poi fece per ritornare a casa, ma un lamento del vecchio lo fece tornare sui suoi passi. Vincendo il disgusto, si avvicinò alle labbra del vecchio per capire che cosa dicesse, ma evidentemente Babbo Natale farneticava in preda ai fumi dell’alcool e non era in grado di spiccicare una parola di senso compiuto. Non posso lasciarlo qui a crepare di freddo, pensò Carlo: stava per chiamare i carabinieri quando il vecchio disse chiaramente “caffè”. “Come?” disse Carlo. “Caffè” biascicò nuovamente il vecchio. Carlo prese il vecchio sottobraccio e con fatica lo trascinò su per le scale, fin dentro casa, e lo mise a sedere su una sedia vicino al tavolo. Prese la caffettiera, la riempì, la mise sul fuoco e qualche minuto dopo, quando l’aroma di caffè invase la cucina, versò tutto il contenuto della caffettiera in una tazza grande e la mise di fronte al vecchio dicendo :”Niente zucchero, prendilo amaro che ti passa la sbronza”. Il vecchio lo guardò e bevve a piccoli sorsi, guardando in basso, quasi si vergognasse di essere finito dentro casa di un estraneo conciato in quel modo.

Dopo qualche minuto che a Carlo sembrò un’eternità “Dove abiti?” chiese Carlo al vecchio. “Dall’altra parte della città”, rispose il vecchio. I due si guardarono a lungo in silenzio. "Vivi da solo? " fece il vecchio. " Sì" rispose Carlo. "Anch'io", fece il vecchio. "Dura la vita, eh?" disse Carlo tentando di sdrammatizzare. "A volte" soggiunse il vecchio mentre lo guardava pensieroso. "Ma a tutto c'è rimedio". Carlo pensò che il rimedio del vecchio ai problemi della vita lo vendevano al supermercato dentro una bottiglia col tappo di sughero, mentre lui i suoi problemi se li doveva sbrogliare uno a uno a mente lucida.

Continuarono a starsene seduti in silenzio, Carlo e il vecchio, mentre l' orologio della cucina segnava col suo impassibile, meccanico ticchettio lo scorrere del tempo.

D'un tratto, il vecchio disse: “Finisco il caffè e me ne vado. Ho la macchina qui dietro.” “Ma dove vai” fece Carlo “se ti becca la volante in questo stato ti strappa la patente e ti sbatte in galera. Ti chiamo un tassì”. “Non ho una lira” disse il vecchio. “I soldi che ho guadagnato stasera me li sono bevuti tutti.”. “E vabbè”, Carlo disse con rassegnazione “vorrà dire che la corsa te la pago io. Non è mica da tutti pagare il tassì a Babbo Natale”. Si alzò, compose il numero del radiotaxi, attese la risposta del centralino automatico, riappese. “Cinque minuti Genova cinque”. “Aspetto di sotto”, fece il vecchio “ hai fatto pure troppo.” Si alzò barcollando e si diresse verso la porta: Carlo fece per sostenerlo ma il vecchio disse “ti ho detto che hai fatto pure troppo. Grazie. Vai a dormire che è tardi”. “Ohè Babbo”, disse Carlo ridendo “guarda che se ti bevi pure questi finisce che stanotte muori assiderato sotto un ponte eh? “ “No, vado a casa. Per oggi ho chiuso. Era l’ultimo.” rispose il vecchio aprendo la porta di Carlo. Poi, un attimo prima di sparire giù per le scale, “Buon Natale” disse. “Buon Natale”, rispose Carlo. Chiusa la porta, Carlo andò alla finestra giusto in tempo per vedere il vecchio che si infilava nel tassì e spariva in mezzo alla tempesta di neve.

Finalmente solo, Carlo fu aggredito dal sonno. Si spogliò, mise con cura gli abiti sul servo muto che teneva a fianco del letto, si infilò il pigiama di flanella e scivolò sotto le coperte. Verso l’alba aprì gli occhi in preda alla sete: cercò di resistere e di tornare a dormire, ma alla fine si arrese all’evidenza e, rabbrividendo, corse in cucina per prendersi un bicchiere d’acqua, aprì il rubinetto, riempì il bicchiere, bevve, e per sicurezza riempì di nuovo il bicchiere per portarselo in camera. Fu allora che il piede di Carlo inciampò in qualcosa che non avrebbe dovuto essere lì: guardò a terra e vide il vecchio sacco vuoto di iuta che il vecchio ubriacone aveva evidentemente dimenticato. Lo raccolse, tornò verso il lavello e fece per buttarlo nella spazzatura, e fu proprio in quel momento che si accorse che il sacco non era poi così vuoto come sembrava, allora ci infilò dentro una mano, vi frugò all'interno, poi lo rovesciò completamente: nascosta in fondo al sacco, quasi impigliata in uno dei due angoli, luccicava una biglia blu cobalto.

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