Qualcuno raccontava, mi pare Montesano, che durante la tournée americana di Rugantino Aldo Fabrizi si metteva ogni mattina sulla sedia di Mastro Titta, in mezzo alla scenografia di Coltellacci che riproduceva scorci di Roma, a leggere il giornale. “Perché me pare de sta’ a casa”, diceva.
Homesickness, la chiama appropriatamente la lingua inglese, ovvero “la malattia di casa”. Non è propriamente una nostalgia (non c’è algòs, dolore), è proprio la mancanza di quei punti di riferimento familiari che, quando sei all’estero, a volte ti fa sentire spaesato (altra parola singolarmente precisa) e quindi ti aggrappi a qualsiasi cosa abbia un qualsiasi legame con le tue radici, sia pure un espresso.
E’ una sensazione, quella della homesickness, che difficilmente conosce chi viaggia per divertimento o per affari: il turista la ignora perché è lieto di lasciare casa e in genere si butta nel vortice delle cose da vedere riempiendosi la giornata e gli occhi, e generalmente dopo una decina di giorni la vacanza finisce; il viaggiatore d’affari non ha praticamente tempo per sperimentarla per via del fatto che generalmente sta fuori due, tre giorni al massimo, e ha l’agenda fitta d’impegni.
L’artista, invece, lascia la sua casa per un periodo che va dai venti ai quaranta giorni e nel corso della sua trasferta ha un’infinità di tempo libero a sua disposizione quando è in pausa tra le ore di prova o tra le recite; a differenza del turista non è partito per divertirsi e quindi ha delle responsabilità che gli impediscono il turismo selvaggio, e a differenza del viaggiatore d’affari non rientra dopodomani.
Tutto questo pensavo stamattina quando, passeggiando sotto un cielo di plastica di una Venezia in vetroresina ricostruita a Macao, d’improvviso e senza che facessi nulla perché succedesse, mi sono sentito “come a casa”. Non più spaesato. Non c’erano più i brutti grattacieli, il cielo plumbeo, il casinò pacchiano, i neon demmerda, le scritte cinesi, l’odore di glutammato: c’era una città a misura d’uomo, proporzioni e colori familiari, insomma bellezza. Di plastica, riprodotta, finta, quello che vi pare, ma bellezza. Bellezza ricostruita scenograficamente all’interno di un casinò.
Certo che lo sapevo che era finta, e certo che lo sapevo che quello era il casinò pacchiano visto da dentro, anzi probabilmente il più pacchiano di tutti (anche se a Macao non si può mai dire), eppure per la prima volta da quando ho ascoltato, direi trent’anni fa, l’aneddoto di Fabrizi ho veramente capito “dentro” che cosa volesse dire, per un romano come lui catapultato in un mondo non suo per lavoro, ritrovarsi a leggere il giornale in una Roma di cartongesso e sentirsi a casa.
Mi sono seduto a prendere un caffé mediocre nella finta Piazza San Marco priva di Basilica ma con tanto di Orologio dei Mori, ho chiuso gli occhi ascoltando Vivaldi sparato in loop in sottofondo, e mi sono goduto questa “casa artificiale”, questa sorta di Prozac in vetroresina che non ti riporta veramente a casa come la pillolina non ti cura la depressione.
Quando ho riaperto gli occhi, i segni inequivocabili che mi trovavo in una Venezia di plastica e non nel mio Paese erano lì davanti a me: il conto, tre euro.
E’ bastata una breve occhiata perché la parte cinica che vive dentro la mia testa rompesse l’incantesimo: ”se fossi davvero a Piazza San Marco, tre euro col cazzo!”
Perché a me, di esser romantico e nostalgico, di macerarmi come il giovane Werther, di sdilinquirmi per una madeleinette come Proust più di tanto il cervello non l'ha mai concesso. Mi piacerebbe eh? Ma non me l'ha mai concesso. Mai.