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  • misteralfi

Partir, c'est rester un peu


Ho cominciato a fare il mio mestiere quando viaggiare significava davvero andare altrove, allontanarsi da tutto, in un'epoca in cui Internet e tutto quello che porta con sè (le email, Netflix, i social network, le videochiamate) erano ancora da venire e lasciare casa voleva dire lasciarla, nel vero senso del termine, e perdere i contatti con il proprio mondo fino al giorno del rientro.

Si partiva lasciando un messaggio nella segreteria telefonica, "sono all'estero fino a fine mese. Non lasciate messaggi in questa segreteria perché non saranno ascoltati. Potete contattare il mio agente al numero X oppure potete provare a chiamarmi al numero Y", con indicazioni che venivano spesso disattese perché, diciamolo francamente, per l'eventuale interlocutore poche cose erano così importanti da sprecarci una chiamata internazionale o transoceanica in teleselezione.

Partivi, ed eri solo. Mettevi in valigia un numero di libri sufficiente a garantirti autonomia per il periodo di permanenza, infilavi in borsa gli spartiti, e ciao. Delle cose di tutti i giorni saresti tornato ad occuparti una volta tornato a casa. Arrivavi a destinazione senza avere un'idea della città, dei monumenti, della toponomastica se non grazie a una mappa rigorosamente cartacea. Non sapevi, prima di sederti a tavola, se il ristorante che avevi scelto sarebbe stato buono o pessimo. Non avevi idea di quale edicola avesse in vendita i quotidiani italiani. Eri tagliato fuori. Eri in viaggio, e il viaggio era un'avventura. Ad venturam, il che porta con sè appunto il concetto di futuro, di ignoto, di incertezza, di totale ignoranza di quanto ti si sarebbe parato davanti.

Siamo, noialtri, forse l'ultima generazione cui è stato dato di vivere in maturità dentro la fantascienza che ci affascinava da bambini, quando i computer erano dei cassoni grandi come un armadio e mandavano avanti l'astronave di U.F.O. capitanata dal comandante Stryker e le videochiamate erano appannaggio dell'equipaggio di Spazio:1999, insomma roba che a noi abituati al telefono a muro, alle chiamate a gettone e che da poco ci eravamo affrancati dalla molesta schiavitù del duplex pareva futuristica e impossibile.

Ora invece, in pieno web 2.0 e con in tasca un apparecchio straordinariamente simile, anzi migliore, di quello con cui la dottoressa Russell faceva gli occhi dolci al comandante Koenig, siamo sempre connessi con chiunque vogliamo e restiamo in contatto con il mondo che lasciamo a casa. Partiamo. Ma partiamo davvero?

Certamente la vita dell'artista che, in piena era internet, viaggia lontano da casa, si è straordinariamente semplificata. La solitudine viene sconfitta a colpi di videochiamate. I nostri racconti di viaggio sono comunicati all'istante ai nostri amici. Chiunque abbia voglia di sentirci non ha che da prendere in mano lo smartphone e contattarci a costo zero via whatsapp. Tripadvisor ci consiglia o sconsiglia il ristorante da scegliere. I cookies di Google, che ormai ci conoscono al punto tale da chiederci un'opinione su un negozio davanti al quale ci siamo casualmente fermati, fanno di tutto per semplificare la nostra vita e suggerirci dove dovremmo andare e cosa dovremmo fare. I miei giovani colleghi non conosceranno mai, insomma, che cosa si prova ad essere davvero lontano da casa perché, di fatto, ne restano lontani solo fisicamente ma per il resto è come se fossero sempre rimasti lì.

E' tutto molto più semplice, oggi. Siamo tutti molto più connessi. Ma quanto a partire, partiamo davvero? E quanto a viaggiare, viaggiamo davvero? So bene che dietro questa domanda c'è il rischio di romanticizzare il tempo andato e di essere la copia moderna di quelli che si lamentavano dicendo che andando in auto invece che in calesse si perdeva il bello del viaggio, eppure è una domanda che non riesco a smettere di farmi, quando sono lontano da casa.

Sommessamente, mi sento di dire che senza ombra di dubbio non vorrei neppure per un attimo tornare indietro (meglio averle, le comodità, e meglio esser messi nella possibilità di contrastare il senso di solitudine e di isolamento, quando arriva) eppure a volte non mi dispiacerebbe provare quel senso dell'ignoto, dell'avventura, insomma quell'incertezza poetica che è alla base del viaggio. Ma soprattutto, lo ammetto, non mi dispiacerebbe poter dire, come una volta "Non posso farci nulla, ora sono a Macao, me ne occuperò al mio rientro", cosa resa totalmente impossibile proprio da quel meccanismo che mi aiuta a restare, sempre, connesso col mondo che ho lasciato indietro per lavoro.

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